Oreste
Ferrari
Carmine Di Ruggiero
A poco più di un
anno di distanza dalla sua prima personale (al «Cancello», di
Bologna), Carmine Di Ruggiero
ha presentato, alla
galleria «II Traghetto» di Venezia, gli svolgimenti ulteriori di una
sua ricerca pittorica che
già allora, a
molti, era apparsa seriamente avviata su strade proprie.
Tra i termini di
tempo delle sue mostre, pur così prossimi, è racchiuso un momento
che si può definire cruciale
nella carriera del
giovane pittore napoletano. Proprio in questi ultimi mesi egli ha
avvertito, sempre più urgente,
l'esigenza di
estrarsi da una condizione di pressoché illimitata sperimentazione
di modi linguistici, per
procedere invece ad
una verifica puntuale dei mezzi espressivi che gli si sono rivelati
più congeniali e,
soprattutto meglio
motivati. Egli ha infatti cercato di assodare la qualificazione
espressiva della propria pittura
dall'interno,
indagandone le ragioni interiori. A veder bene, s'è sostanzialmente
trattato, per Di Ruggiero, di
verificare la
propria vocazione artistica in rapporto allo specificarsi della
propria situazione esistenziale:
dunque, una prova
di consapevole maturità umana.
Tale prova è
talmente intrinseca allo sviluppo di ogni genuina ricerca artistica,
e cosi ovviamente
imprescindibile che
si avrebbe perfino ritegno a darne evidenza, se invece a ciò non
costringesse proprio la
constatazione
sempre più frequente della cinica irresponsabilità con cui tanti
«giovani» pittori e scultori, pur
dotati di
notevolissimo potenziale espressivo, si sottraggono alla severa
disciplina di quella prova stessa,
paghi di certi lor
precoci ed appariscenti successi: nel che, si sa, è la ragione prima
della conturbante
confusione che
caratterizza la situazione artistica attuale, ed anche della estrema
difficoltà a giudicarne con
scrupolo. Occorre
quindi, in primis, dar atto a Di Ruggiero d'essersi impegnato, al
tempo giusto, in tale prova.
I
motivi di un mondo d'immagini che sono essenzialmente pittoriche,
perché si
manifestano non per
mezzo della pittura, ma come pittura, vennero, a suo tempo,
messi a punto
attraverso un procedimento d'indagine linguistica originale, che si
produsse in modi
analoghi, ma non deliberatamente contigui alle esperienze sia del
cosiddetto
neo-naturalismo italiano (penso al Vecchi di qualche anno fa), sia
di certa pittura americana (penso
a Philip Guston).
Questo era, appunto, il momento della mostra bolognese.
Tali motivi Di
Ruggiero li ha successivamente meglio localizzati in se stesso e
nella propria esperienza; e
quindi, privati di
ogni elemento descrittivo, egli li ha ridotti alla esclusiva
sostanza esistenziale.
Ne è conseguita una
più perentoria presenza dell'immagine, costruita in modo largo e
conciso, con un colore
più carico di
qualità emotiva, riprendendovisi, ma in termini di più attuale
formulazione, una sicura vocazione
espressionistica.
Particolarmente importante è il valore che assume ora il campo
chiaro che circonda
l'immagine stessa e
che non è più spazio prospettico ne, tanto meno, fondo o contrasto,
bensì si qualifica
come fluido ambito
della memoria, con una sua precisa dimensione spazio-temporale, in
sé comprendente
tutte le virtualità
d'immagine e dal quale l'immagine scaturisce come un evento
naturale.
Dissi una volta che
Di Ruggiero coglie «con una felicità pittorica che, per paradosso,
si direbbe di un Migliare
informale, la
stupefacente fragranza che eventi anche consueti e frusti
riacquistano per ('atto che li riscatta ad
una più genuina
condizione d'esistenza». Ora mi pare che Di Ruggiero abbia
sviluppato la capacità di presa di
possesso del suo
mondo d'immagini proprio nel senso sopra accennato: e cioè attuando
una sempre più
stretta
individuazione di questo mondo con il mondo della propria esistenza,
fino all'identità assoluta. Un
mondo, certo, che
come è aperto a vaste risonanze, è pur intimamente radicato ad
effettive peculiarità di
cultura proprio di
ambiente. Da esso in particolare traspare la bipolarità compresente
sempre nel complesso
«animus» popolare
napoletano: la gioiosa adesione al «naturale» e la più amara
visionarietà, festosità e
squallore,
sentimento e abominio, canto e urlo, dolcezza e crudeltà; come
peraltro, tra tanta letteratura
folkloristica o
populista, solo nei racconti di Domenico Rea si percepisce con
esattezza.
E cosi, scartati
definitivamente i rischi del facile «color locale», del facile
«pittoresco sentimentale», ed invece
tenuta integra la
reale complessità di quelle urgenze emotive, le immagini di Di
Ruggiero, la sua stessa
mitologia popolare
possono considerarsi non solo come segno della incipiente maturità
dell'artista, nella quale
occorre ripor
fiducia, ma anche come il sintomo più lampante della consapevolezza
moderna che, non solo
nell'arte, vengono
oggi conquistando le giovani generazioni meridionali.
Oreste
Ferrari
Carmine Di Ruggiero
«Scena Illustrata»
- maggio 1961 Roma
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